Da tanto tempo cercavo un modo per contaminare e fare convivere – come dici tu – le fotografie e le parole. Lo credevo impossibile, nel senso che bastava poco per scadere nella didascalia. Il punto è che non si fanno fotografie senza mai farsi una domanda, porsi un dubbio. Nel corso degli anni di dubbi e domande ne avevo accumulate tante e il libro è stato un modo per mettere un punto, un tentativo di risposta, un tentativo di chiarire a me stesso prima di tutto, l’origine della mia ricerca così come la potenza della luce, dei corpi, di quell’enorme scrigno che è il Mediterraneo. La fotografia povera, come dico nel libro, è una non-definizione. É, diciamo, più una attitudine. Non è nemmeno un metodo o una scienza ma è, probabilmente, la vita stessa sottratta a tutto ciò che è superfluo, un invito a viaggiare leggeri, portati dall’istinto e senza una vera e propria meta.
Non faccio differenza fra la fotografia e la vita, fra il lavoro e il quotidiano. Per me sono la stessa identica cosa. L’interesse per gli uomini, per le loro virtù e soprattutto forse per le loro miserie, me le porto dietro da sempre. Sono sempre stata una persona curiosa, a cui piacevano le storie, le vite degli altri, che ci fantasticava sopra e si divertiva a immaginare cosa accadesse, per esempio, dentro le case intraviste dalle rotaie di una ferrovia, dal finestrino del treno. Ho solo assecondato questa mia inclinazione. Avrei continuato a farlo, in realtà, anche senza la scrittura o la fotografia. Non ho una visione antropocentrica della vita. Al contrario, credo ci sia molto di più sia sopra che sotto, ma gli esseri umani con le loro infinite sfumature sono se vogliamo un mezzo, un anello di congiunzione fra i tanti mondi possibili. Non mi pongo il problema della distanza, anzi più sono dentro, più faccio parte del contesto che fotografo, più sono “vicino” fisicamente ma non solo, meglio è. Niente distanze, quindi, ma la massima empatia possibile.
Forse, senza i social, non saremmo nemmeno qui a parlare. Non provengo da una famiglia ricca, quindi non avrei avuto, al tempo, la possibilità di viaggiare per l’Italia con il mio portfolio sottobraccio per i vari festival fotografici. L’unico modo che avevo era fare in modo che le fotografie andassero per la propria strada, un po’ come i messaggi nelle bottiglie. Ho un rapporto di amore\odio con i social, ma riconosco che se usati in maniera “corretta” possono essere un grimaldello incredibile, un modo per farsi conoscere. Mi piace ancora oggi raccontarne attraverso il mio lavoro, è diventata nel tempo una piacevole abitudine.
Tutto nel mio lavoro ha a che fare con la memoria. É per me fondamentale, perché ogni fotografia che faccio risponde e fa suonare delle corde che provengono da un tempo lontano, di cui ho memoria e che più vado avanti nella vita più assume i caratteri dell’epica. Semmai siamo diventati, o stiamo diventando sempre più, un paese con poca memoria storica e personale. Ed è questo, temo, il vero male del nostro tempo.
Fa ridere, ma ho cominciato per caso. Un amico, un giorno, mi mise in mano una macchina fotografica e con quella iniziai a camminare per le strade della mia città fino a quando non successe una cosa strana: tutto ciò che mi era familiare, mi apparve sotto un’altra lente, come se avessi avuto un paio di occhi nuovi. Iniziare a fotografare quello che vedevo, le persone che incontravo, è stata quindi una reazione conseguente a questo nuovo modo di guardare alle cose.
Alle volte (poche per fortuna), mi guardo indietro e mi sembra incredibile essere arrivato fino a qui. Mai avrei immaginato che sarebbe successo quello che poi è successo.
Più che un lavoro, la fotografia come la scrittura, sono per me un grande viaggio.
Direi proprio di sì.